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E se più congedi non servissero affatto a far nascere più figli?

Un Parlamento che discute undici testi sui congedi per alzare la natalità parte da una premessa comoda e rischiosa: che più giorni a casa significhino più culle. Emmanuele Massagli, presidente della Fondazione Ezio Tarantelli e dell’Associazione Italiana Welfare Aziendale, docente all’Università Lumsa ed esperto Cnel, non la condivide. In audizione alla Commissione Lavoro della Camera ha rovesciato il tavolo: “Se l’obiettivo è l’innalzamento dei tassi di natalità, il nesso con l’ampliamento dei congedi non è affatto dimostrato”.

Poi, ragionando a margine, chiarisce il punto: è la stessa struttura dell’astensione dal lavoro – e tanto più la sua estensione – a irrigidire le scelte di genitorialità proprio nell’età in cui ci si gioca carriera e futuro.
Da qui l’appello al Parlamento: distinguere tra misure giuste per l’equità e misure efficaci per la natalità, perché spesso non coincidono.

Le undici proposte in Commissione e il dubbio di fondo

Sul tavolo della Commissione Lavoro ci sono undici proposte di legge — la C.2 di iniziativa popolare, la C.323 Orfini, la C.506 Gribaudo, la C.609 Scutellà, la C.802 Gebhard, la C.1107 Grimaldi, la C.1250 del Consiglio regionale del Veneto, la C.1904 e la C.1924 Tenerini, la C.2208 Soumahoro e la C.2228 Schlein — che intervengono sul Testo unico su maternità e paternità (decreto legislativo 151 del 2001).

Massagli le divide in due blocchi principali: cinque puntano a eliminare disallineamenti regolatori (come la parificazione tra pubblico e privato, l’equiparazione tra lavoratori domestici e non e l’uniformità dei congedi per fasce d’età dei figli), altre cinque ampliano diritti e tutele. A queste si aggiunge la proposta di iniziativa popolare, che mira a una revisione complessiva e organica dell’intero impianto normativo.

Quasi tutte, però, si presentano come risposta alla denatalità. Ed è qui che il professore frena: “L’assenza prolungata dal lavoro, oggi fino a 11 mesi in casi limite, interviene in un’età – intorno ai 30 e oltre – che coincide con l’avvio della carriera”.

In un Paese dove l’ingresso stabile nel mercato del lavoro è tardivo, una lunga pausa obbligatoria pesa sulle scelte familiari e spinge a rinviare. Il tema è capire quanto questo meccanismo incida davvero sul momento in cui si decide di avere figli. “È una tutela essenziale, ma non ha un nesso diretto con la natalità.”
Le leve che contano, secondo studi più recenti, sono altre: servizi per l’infanzia, occupazione femminile, welfare aziendale e sostegni economici mirati.

Se l’obiettivo politico è far salire le nascite, concentrare risorse sull’aumento dei periodi di congedo rischia di essere una strada costosa e poco produttiva. Non si tratta di smontare diritti acquisiti, ma di distinguere gli obiettivi: la parità e il sostegno alla cura da un lato, la politica demografica dall’altro. E misurare ciascuna per ciò che promette davvero.

Carico di cura e divario salariale: dove si inceppa la carriera (e perché il conto lo paga la donna)

Il nodo, spiega, resta nella distribuzione del carico di cura. In Italia, ricorda Massagli, la gestione dei figli grava quasi sempre sulle madri. È qui che il congedo – “che resta un’assenza, anche se giustificata” – moltiplica i suoi effetti collaterali: rallentamenti di carriera, progressioni rinviate, minore potere negoziale.

“Il gender pay gap non dipende dal fatto che, a parità di inquadramento, la donna venga pagata meno, ma dal fatto che la sua carriera subisce più rallentamenti”. Le stime parlano di uno scarto medio annuo tra 4 e 5 mila euro.

Quando uno dei due redditi resta indietro, aggiunge, diventa economicamente “razionale” che sia sempre chi guadagna meno ad assentarsi. L’effetto cumulativo è inevitabile, e la scelta di maternità – collocata negli anni più fertili e al tempo stesso cruciali per il lavoro – viene rinviata o ridotta.

“Aumentare l’astensione senza modificare contesto e incentivi può cristallizzare l’asimmetria invece di ridurla”. Il recupero di uguaglianza tra maternità e paternità – per esempio rendendo più robusto il congedo dei padri – è legittimo e auspicabile sul piano dei diritti, ma non si traduce automaticamente in nuove nascite.

Se l’obiettivo è la parità nei carichi di cura, servono meccanismi obbligatori e condivisi accompagnati da servizi che mantengano il legame con il lavoro. Se invece si punta a far crescere la natalità, le priorità sono altre: stabilità occupazionale, servizi territoriali e sostegni economici stabili. Mischiare i piani, insiste Massagli, confonde le priorità e gonfia aspettative che la norma non può soddisfare.

Congedo di paternità: costi e scelte possibili

C’è un punto su cui la discussione si fa concreta: l’obbligatorietà del congedo di paternità. Per Massagli è uno strumento che può incentivare un cambio culturale, educando alla condivisione della cura nei primi mesi di vita del bambino: “abituare anche l’uomo a condividere il carico familiare all’inizio”. Ma il dispositivo ha un costo, per lo Stato, che finanzia l’istituto attraverso l’Inps, e per le imprese, che devono gestire assenze simmetriche tra i genitori.

In audizione, Confcommercio ha fissato un limite netto. “Un innalzamento del congedo per i padri da dieci giorni a cinque mesi, soprattutto se configurato come obbligo, genererebbe pesanti oneri organizzativi per le imprese, oltre a un’eccessiva equiparazione, anche sotto il profilo sanzionatorio, al congedo di maternità”, ha dichiarato il vicepresidente Mauro Lusetti. Non solo: per l’associazione sarebbe preferibile valorizzare strumenti già esistenti nella contrattazione e negli enti bilaterali – rimborsi spese per i figli, misure di conciliazione – e continuare a potenziare le indennità del congedo parentale, con particolare attenzione alle famiglie più fragili.

Molte proposte in esame pesano tra i due e i tre miliardi di euro. “Per una proposta parlamentare è tantissimo… un quarto di una finanziaria”, osserva Massagli. Il nodo politico è chiaro: spingere il cambio culturale sulla condivisione dei carichi, con un impatto immediato sulle imprese, oppure concentrare risorse su servizi universali e trasferimenti? Tenere insieme tutto, senza priorità, raramente funziona. E, soprattutto, non muove la lancetta della natalità.

Dove si costruisce davvero la scelta di avere figli

La leva privata, sottolinea, non è marginale. “È necessaria una maggiore responsabilizzazione delle imprese”, sostiene Massagli, non per sostituire il welfare pubblico ma per completarlo. Il welfare aziendale in Italia non è obbligatorio, ma quando c’è impiega risorse dell’impresa – agevolate fiscalmente – per acquistare beni e servizi sociali per i dipendenti: nidi convenzionati, sostegni alla cura, assistenza agli anziani.

Il professore allarga, poi, il campo: “Non c’è solo l’infanzia, ma anche la long-term care, la gestione dei genitori non autosufficienti in un Paese che invecchia”. Sostenere queste esigenze riduce le assenze non programmabili, alleggerisce i picchi di conciliazione e mantiene continuità lavorativa, la condizione che la ricerca associa a scelte familiari meno rinviate.

La chiave, però, non è solo organizzativa. Leggi e risorse contano, ma la decisione di avere figli richiede fiducia nel futuro. “Quando la fiducia scende, arretrano sia la demografia biologica, cioè le nascite, sia quella imprenditoriale, cioè le nuove iniziative. È lo stesso freno psicologico che agisce su entrambe”.

Il pubblico può intervenire sui servizi territoriali, sull’abitazione, sulla stabilità del lavoro, riducendo l’incertezza che spinge a rimandare. Le imprese possono fare il resto, legando la conciliazione alla responsabilità sociale e alla gestione dei talenti: chi offre equilibrio tra vita e lavoro attrae e trattiene competenze.
“Il rischio – conclude Massagli, è perdersi nei combinati disposti legislativi, aggiungendo giorni e commi, e scoprire tra un anno che i nati non sono aumentati. Non perché i congedi non servano, ma perché non erano lo strumento pensato per quello scopo”.

Famiglia

content.lab@adnkronos.com (Redazione)

© Riproduzione riservata

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